Casa Museo Remo Brindisi
Spazio, tempo, luce
di Chiara Tartagni – foto di Gianluca Gasperoni
«Il quadro non è tondo»: sono le parole con cui Leporello cerca di disfarsi della povera Donna Elvira nel Don Giovanni di Mozart. La stessa cosa, seppur con tutt’altro senso, avrebbe potuto forse dire Nanda Vigo, che progettò per Remo Brindisi la sua Casa Museo di Lido di Spina (RA). Sì, perché se vi ritroviamo circolarità e linee ricurve, è per volontà del committente. Vigo non amava la forma del cerchio, se non per contrasto. Al contrario, aveva una predilezione per il quadrato. Ma da questa divergenza di intenti e inclinazioni è nata una dimora unica nel suo genere, una gemma preziosa incastonata nel nostro territorio.
La milanese Fernanda Vigo, detta Nanda, è una figura artistica dalle infinite sfumature e pionieristica in più di un modo. Prima di tutto, in quanto donna in un settore quasi del tutto maschile. E in seguito per le sue scelte progettuali, che, volando fra una disciplina e l’altra, si sono prese uno spazio esclusivo. E “spazio” è la parola chiave. Tante le collaborazioni e le affinità che l’hanno stimolata, da Filippo De Pisis e Lucio Fontana fino a Frank Lloyd Wright e Gio Ponti. Ma tutto era iniziato da una folgorazione sperimentata a 4 anni: la rifrazione della luce sul vetrocemento della Casa del Fascio di Giuseppe Terragni. Vigo ha coniugato nella propria ricerca pluridecennale la fascinazione per la luce e l’attrazione per la dimensione spazio/tempo. Una relazione conflittuale e allo stesso tempo fertilissima. «La luce va seguita senza opporre resistenza. Non potrà che illuminarci», diceva.
Remo Brindisi fu a sua volta un esploratore, dal Realismo all’Espressionismo fino all’Informale. Segnato dalle esperienze vissute durante la Seconda Guerra Mondiale, il pittore era un viaggiatore indefesso nella natura umana e nella sua bestialità, così come negli ingranaggi sempre più soffocanti della vita moderna. Il percorso creativo di Vigo e Brindisi non fu tutto rose e fiori: nacque un dissidio fra i due quando Vigo scelse di ispirarsi alla struttura del Guggenheim Museum di New York progettato da Wright. Edificata nel verde della pineta fra il 1971 e il 1973, la Casa Museo Remo Brindisi restò aperta alle visite estive fino al 1996, anno in cui l’artista morì lasciandola in eredità al Comune di Comacchio: un atto d’amore nei confronti di un luogo presso cui il maestro aveva scelto di riposare per sempre, forse perché Lido di Spina riportava alla sua memoria i paesaggi scoperti durante la leva militare.
La stessa Vigo sottolineava quanto i termini “casa” e “museo” fossero determinanti nel definire i due corpi della dimora, quello museale e quello abitativo, in un’integrazione viva ma fatta di distinzioni. Esplorare l’interno significa farsi accogliere dal vano cilindrico che è nucleo e punto di partenza, o perdersi lungo la scala elicoidale come all’interno delle conchiglie madreperlacee fotografate da Edward Weston. Significa conoscere il Brindisi pittore, con gli strumenti del mestiere pronti all’uso, e il Brindisi collezionista di giocattoli meccanici, grazie all’angolo della memoria. La collezione museale, esattamente come la casa in sé, vuole essere un manifesto delle arti del Novecento e del loro inscindibile legame. Fontana, Savinio, Sironi, Balla, Manzoni, Rotella, Schifano, Warhol, Bacon, naturalmente lo stesso Brindisi: sono solo alcuni degli artisti ospiti della collezione.
Per seguire la via del totale e illuminante contrasto, torna in mente il Flugelheim Museum di Gotham City nel primo Batman burtoniano (1989). Già il nome svela l’intento satirico di questo museo immaginario, che guarda caso è proprio la caricatura del Guggenheim: la sua struttura è una sorta di claustrofobica nave Art Déco, con un’accozzaglia scriteriata di dipinti e sculture. Senza soluzione di continuità, le ballerine di Degas si alternano ai ritratti di Lincoln e Washington, icone del sogno americano. I pomposi gentiluomini di Van Dyck si accostano all’autoritratto di Rembrandt e all’Approaching a City di Hopper, su cui il villain spennella Joker was here!. Ed ecco il nostro che blocca la propria furia iconoclasta su una sola opera: Figure with Meat (1954) dello stesso Francis Bacon. Il papa Innocenzo X di Velázquez è ormai circondato da carcasse animali, probabilmente anch’egli carne morta, la bocca spalancata in un grido muto. È l’incarnazione del terrore e del decadimento umano, una vanitas molto più efficace di quelle classiche. È il perfetto connubio di disperazione e follia, dunque Joker non può che sentirlo proprio. Tutta la Gotham inventata dallo scenografo Anton Furst è un incubo in stile Art Déco e il museo ne è la condensazione delirante. L’esatto opposto della volontà di Vigo e Brindisi, la cui opera di sintesi è sotto i nostri occhi.
Parliamo del resto dello stesso Furst che aveva ricreato il Vietnam in Inghilterra per Full Metal Jacket (1987). E il nome di Stanley Kubrick non può a sua volta essere ignorato, perché entrare dentro Casa Remo Brindisi significa farsi travolgere da una luce che è tutto tranne che terrestre, data dal suo rimbalzo sugli specchi e sulle piastrelle in klinker bianco a fughe calibrate. È la stessa luce smaltata e innaturalmente candida di 2001: Odissea nello spazio, girato proprio nel periodo in cui Nanda Vigo progettava questa dimora. E Kubrick era quel tipo di creativo disposto a comprare obiettivi Zeiss della NASA per girare le scene a lume di candela di Barry Lyndon (1975). Una scelta avveniristica, ma non la prima del genere. Per la creazione di una lampada oggi iconica, la grande appassionata di fantascienza Nanda Vigo scelse di usare i led, che in quegli anni erano introvabili in Italia. Tanto che dovette volare a Cape Canaveral per acquistarli proprio presso la NASA. La lampada Golden Gate fu progettata nel 1971, lo stesso anno in cui iniziava l’edificazione di Casa Remo Brindisi.
Ed è verso lo spazio, “ultima frontiera”, che vuole condurci questa artista straordinaria, come dichiara in un’intervista del 2019 a Ciro Marco Musella per Elle Decor: «Io spero di guidarvi molto lontano, verso le stelle. Lontano ma non lontanissimo: voglio andare verso le stelle, che è da dove proveniamo, quasi fosse un ritorno primordiale in un mondo fantastico. Con quale stato d’animo si compie il viaggio non sta però a me definirlo, ognuno è libero di farlo come meglio crede. Io mi limito a guidarlo con un mezzo adatto per andare fuori, senza dubbio sulla astronave Enterprise».
*Si ringrazia Laura Ruffoni, Servizio Istituti Culturali del Comune di Comacchio, per averci dato libero accesso all’edificio.
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