Design del suono
Le Noah Guitars
di Chiara Tartagni – foto di Gianluca Gasperoni
Incontrare Renato Ruatti si traduce in un vero e proprio patrimonio di storie. Architetto e designer, Ruatti è tra i fondatori del progetto Noah Guitars.
«Qua c’è spazio per la magia»: Lou Reed ha commentato così le tue Noah Guitars. Raccontaci il processo di progettazione e creazione.
Per me è stato una sorta d’esercizio nel design, nato dall’idea del mio amico Gianni Melis di costruire una chitarra meticcia. Ha impiegato due anni a convincermi, perché quando si tratta di strumenti sento una specie di reverenza. La cosa che più mi frenava non era tanto la tecnica, quanto il dover disegnare una forma. Ma il mio amico mi ha proposto di costruire una Telecaster come se fosse una chitarra resofonica, una Dobro.
Si tratta di due strumenti diversi, perché la Telecaster è elettrica, solid body, prodotta con un criterio industriale. La Dobro è una chitarra in un certo senso acustica, che però è fatta di ferro. Ho iniziato a lavorare con lastre d’ottone e saldature, ma non mi piaceva dal punto di vista del design e ho abbandonato questa strada proprio sull’attacco corpo-manico. Per tutt’altro motivo, mi sono poi trovato in un’officina dove utilizzavano le prime macchine a controllo numerico. Guardavo affascinato la macchina mentre lavorava un oggetto molto complesso in plexiglas. Allora ho chiesto cosa sarebbe successo se avessi messo dell’alluminio al post del plexiglas. La risposta è stata: «Puoi usare anche l’acciaio». È così che ho pensato a come costruire la mia chitarra, a tempo con la tecnologia.
Perché proprio la scelta dell’alluminio?
Io ero già innamorato di questo materiale. Mi sembrava il metallo “meno metallo”, più simile al legno, quindi adatto a uno strumento musicale. In seguito, ho scoperto che la capacità di trasmissione del suono dell’alluminio è simile a quella dell’abete della Val di Fiemme, con cui si fanno le tavole per i violini. Ho operato un trasferimento tecnologico da un mondo a un altro. Siccome nessuno di noi era in grado di costruire uno strumento davvero funzionante, ne abbiamo realizzato alcune parti e ci siamo poi rivolti a un liutaio. Quando gli ho chiesto «Ma funziona?», è accaduta una cosa strana, ma anche bella. Lui mi ha risposto stupito: «È muta». E io ho pensato che avessimo sbagliato tutto. In realtà, voleva dire che il single coil su quella chitarra non faceva ronzio.
Le chitarre elettriche nascono appunto con una bobina singola, ma con il problema del ronzio. Per risolverlo, si è aggiunta un’altra bobina, che però ne ha cambiato la voce. Noi abbiamo risolto il problema alla radice. E questa prima chitarra è andata in scena la sera stessa della consegna, insieme al mio amico.
Il processo ha visto anche degli errori di percorso?
Un cliente ci aveva dato la propria ricetta per realizzare lo strumento, ma era rimasto deluso dal risultato. Allora ho compreso che il musicista deve dirci quello che cerca e noi dobbiamo decidere come trovarlo. Ho fatto tesoro di questa esperienza per un progetto con un committente importante: Ben Harper. Si è scatenato un po’ di fermento nel gruppo, con Mauro Moia e Max Pontrelli, quando abbiamo capito di non dover seguire la sua ricetta alla lettera, ma interpretarla. Questo rischio è normale, proprio come in architettura: te lo prendi con tranquillità. Siamo andati a consegnare la chitarra ad Harper prima di un suo concerto. Poco dopo averla vista, si è allontanato per tornare con una sedia e provarla senza amplificatore. Si è allontanato di nuovo scrollando la testa, come se si stesse chiedendo cosa avessimo combinato. Subito dopo, l’ha fatta mettere fra gli strumenti che avrebbe usato durante il concerto. Il giorno dopo abbiamo ricevuto un filmato da quella serata. Harper si era messo la chitarra sulle ginocchia, presentandola al pubblico, e aveva detto: «L’unico problema di questo strumento è che mi ci vedo dentro. Mi ci vedrò invecchiare dentro».
E com’è andata l’esperienza con Lou Reed?
Su insistenza di Saturnino, per il quale abbiamo realizzato il nostro primo basso, è stato un amico
di Napoli a regalare una Noah a Lou Reed. Un giorno, è arrivata una mail da parte del suo backliner, con una frase che mi ha letteralmente fatto sciogliere: «Lou dice che questo è uno strumento per scrivere». Un giorno è venuto a Milano e ha voluto conoscerci. È stato un incontro imprevedibile, perché era accompagnato da un amico, un anziano prelato italiano. Questo amico ha chiesto di visitare la cantina dove realizziamo gli strumenti e ha voluto un coperchio della chitarra firmato da tutti noi soci. Lo stesso Lou Reed si è incuriosito e ha voluto vedere il nostro luogo di lavoro. Poi si è fatto fotografare insieme ai miei collaboratori illuminato dal riflesso della nostra chitarra. Nel frattempo, io chiedevo al suo amico come si fossero conosciuti. Lui mi ha risposto: «Un pomeriggio a casa di Jackson Pollock»!
Ti sei definito «un muratore che sa di latino», secondo la definizione di Adolf Loos. Cosa significa quindi per te fare architettura?
Io scendo dalle montagne e sono perito edile. Arrivato all’università, sono andato in crisi. Poi è emerso in quegli anni un movimento importante, La Tendenza: ne facevano parte Aldo Rossi, Giorgio Grassi e alcuni esponenti spagnoli. Ora capisco che il mio mondo d’origine è quello della Triennale del ’73. I giovani che allestivano e scrivevano contributi teorici erano proprio i miei professori. Per me la citazione di Loos è l’essenza del nostro lavoro: avere una cultura classica e avere a che fare con la materia. È sempre stata assolutamente lontana da me l’idea di fare sempre la stessa cosa, tanto che il cambio di scala dall’architettura a uno strumento musicale è stato naturale. Io nasco professionalmente come restauratore e devo molto a questo approccio. Il nostro studio è passato anche attraverso la riconversione industriale e abbiamo fatto belle esperienze nelle costruzioni in legno, come ad esempio la realizzazione di 6 palazzine a L’Aquila dopo il terremoto. Abbiamo vissuto il mondo dell’infrastruttura al Frejus: io sono affascinato da chi letteralmente buca le montagne e dalla creatività di certi ingegneri.
Quali altre relazioni interdisciplinari ti piace sperimentare?
Mia moglie è un’esperta di intelligenza artificiale e cibernetica. Quando la andavo a prendere all’università, incappavo in un suo professore, l’informatico Giovanni Degli Antoni, che già nel 1983 mi diceva: «Voi architetti progettate le case e poi le demolite per posare gli impianti, senza capire che fra non molto le case si stamperanno». Un visionario. Ecco, io ho appreso anche da questi ambiti. Nel 2011 l’ho compreso veramente frequentando il mondo dei Makers, gli artigiani evoluti che usano la tecnologia per produrre e per vendere. Tutto torna. Del resto, non è sufficiente mettere insieme un pickup e un manico per creare uno strumento di valore. Lo stesso Renzo Piano dice che il lavoro dell’architetto è un lavoro da artigiano. Il filo conduttore di tutto è sempre il cuore, l’essere umano.
Cos’è per te una “soglia”?
Ancora oggi c’è una soglia che oltrepasso: il luogo dove sono nato e cresciuto. Andare e tornare mi permette di vedere cose che prima non vedevo. Come in Giappone, attraversarla è un’azione zen. Anche solo il gesto di alzare la gamba e passare dall’altra parte dovrebbe essere fatto con consapevolezza. Dovremmo impararlo tutti.
«Ho scoperto che
la capacità di trasmissione del suono dell’alluminio
è simile a quella dell’abete della Val di Fiemme,
con cui si fanno le tavole per i violini»
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