Il gusto della curiosità
Una vista del ristorante dall’esterno,
© Gianluca Gasperoni
Dentro il San Domenico
di Chiara Tartagni – ph. Gianluca Gasperoni
Per Massimiliano Mascia il ristorante San Domenico di Imola non è solo una questione di famiglia. Due stelle Michelin, esempio di unione fra gusto tradizionale e nuove visioni, il San Domenico è un’altra delle soglie varcate durante il documentario Openings.
C’è una soglia nel tuo lavoro?
Se intesa come punto di partenza, è sicuramente la curiosità. Curiosità della materia prima, del territorio, delle tecniche, dei profumi e sapori delle stagioni che si susseguono. Il palato va allenato all’eccellenza e ai buoni prodotti. Sempre con la curiosità, ho incontrato altri prodotti e culture, altri modi di approcciare il lavoro. Ma credo valga per qualsiasi mestiere fatto davvero con il cuore.
Raccontaci anche della soglia fra dentro e fuori la cucina.
Io non abuso di tecniche o ingredienti troppo esotici, quindi la parte più importante del mio lavoro è proprio la ricerca, la relazione con artigiani, produttori, allevatori. Preferiamo magari avere a disposizione la metà dei pomodori, ma buoni il doppio. La soglia fra dentro e fuori la cucina può essere paragonata a ciò che accade nello sport, fra l’allenamento e la gara: una volta che si è in campo, ci si concentra sulla partita e sul risultato migliore, che si ottiene proprio con la preparazione.
A Imola la soglia fra città e campagna è molto sottile. Quanto aiuta nello sviluppare un nuovo progetto
di cucina?
È fondamentale. La nostra cucina è incentrata proprio su questo. Siamo fortunati a essere in Emilia-Romagna, piena di eccellenze come il Parmigiano Reggiano, l’aceto balsamico, l’olio di Brisighella, il pesce dell’Adriatico, la carne, i salumi, frutta e verdura di qualità.
Qual è la persona da cui hai imparato di più?
Mio zio Valentino mi ha trasmesso più di tutti a livello di conoscenza enogastronomica. Da entrambi i miei zii e dal signor Morini, che ha aperto il San Domenico 50 anni fa, ho ricevuto una cultura del lavoro, che comprende sacrifici, fatica e confronto alla pari. Dentro la cucina c’è un rapporto orizzontale, perché tutti abbiamo avuto altre esperienze e condividiamo ciò che abbiamo imparato, senza imporre un metodo. L’importante è mantenere una filosofia chiara, nel rispetto dei clienti che cercano un’esperienza precisa.
Cos’hai imparato dalla tua esperienza con il grande Alain Ducasse?
È quella che mi ha lasciato di più. Quando sei chef (una parola che non mi piace e non uso), devi sapere anche cosa evitare. Ma tutte le esperienze nei piccoli ristoranti mi hanno aiutato a capire le relazioni interne ed esterne, i pro e i contro dei passaggi generazionali nelle famiglie.
Anche le stelle Michelin sono una soglia?
Sono importantissime nel nostro lavoro ed è un orgoglio per me cercare di conservarle: il San Domenico le ha da 40 anni. Danno un senso di completezza del lavoro. Ma non penso siano una soglia, altrimenti, una volta raggiunte, ci si fermerebbe.
Questo luogo ha anche la forza di non cambiare.Ti senti a casa, ma meglio.
Il San Domenico nasce proprio come cucina di casa. Ecco perché le tovaglie non sono bianche, non ci sono solo sedie ma anche divanetti. Anche gli altri oggetti sono stati studiati in questo modo. Lo stesso vale per il servizio e l’empatia di chi ci lavora. Negli anni sono cambiati i colori e la luce, ma la visione resta la stessa.
Quali sono le soglie personali che vorresti oltrepassare?
Vorrei cercare di comunicare ai più giovani la bellezza di questo lavoro e renderli consapevoli che non basta frequentare la scuola per essere “arrivati”. Quella è solo la base necessaria. Bisogna voler migliorare sé stessi, cercare la cura del dettaglio. Fra le cose più belle e sentite del mio lavoro c’è il confronto con i clienti, per capire cosa è piaciuto e migliorare attraverso le critiche.
Quanto sono importanti le persone che lavorano con te per fare sempre meglio?
Io ho la capacità di sintesi per dare qualche linea guida, ma le persone vanno stimolate, soprattutto se molto giovani. Devono essere libere di sbagliare, perché così cresce il senso di responsabilità. È questo il rapporto orizzontale. Le cucine di una volta e soprattutto quelle francesi hanno un’impronta militaresca in cui io non mi ritrovo. Oggi più che mai ci si integra culturalmente e caratterialmente: l’intelligenza di chi guida sta nel valorizzare le attitudini personali.
Come vi trasformerete dopo aver attraversato la situazione attuale?
Nell’immediato il cambiamento è stato obbligato: il delivery, la videoricetta sui social. Il nostro augurio è quello di tornare a pranzare e cenare al ristorante. Questo lavoro è completo solo con l’esperienza seduti al tavolo. Forse la situazione ha generato proprio questa consapevolezza: tante persone hanno capito che il ristorante non è solo un posto dove si va a mangiare.
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